Come è avvenuto, Maestro, l'incontro con la chitarra?
Devo premettere che, quando vinsi il "Prix Prince Pierre de Monaco" nel
1972, entrai in contatto con la casa editrice francese Alphonse Leduc con la quale si
avviò una collaborazione che durò oltre un decennio. Fu questo editore a chiedermi - tra
le altre cose - una composizione per flauto e chitarra dedicata agli allievi dei corsi
inferiori: io scelsi alcune ninne-nanne di diverse regioni italiane, e ne feci una libera
elaborazione per flauto e chitarra) dando alle stampe le Cinq Berceuses Populaires.
Quale è stato il percorso attuato in questi anni nello scrivere nuove opere per lo
strumento?
È stato un percorso un po' strano, direi quasi un percorso a ritroso. Infatti, dopo la
prima esperienza di cui si è detto, e che - come composizione didattica - prevedeva
necessariamente un utilizzo assai limitato delle possibilità dello strumento, trascorse
quasi un decennio in cui non scrissi nulla per chitarra. Quando mi si ripresentò
l'occasione di riaccostarmi allo strumento, e senza limiti di difficoltà, forse per
un'inconscia reazione, mi sentii attratto dall'esplorazione delle risorse timbriche più
particolari, e specialmente dalle svariate possibilità di utilizzo dei suoni armonici. Planh è
quasi uno studio sugli armonici della chitarra. Ovviamente le ricerche effettistiche
presupponevano il continuo ricorso alle cortesi consulenze degli strumentisti, e
attraverso questi contatti andai poco per volta a "capire" e quindi a
riconoscere la natura intrinseca dello strumento. Notturno sopra un'aria
trovadorica segna già, per me, l'inizio di questo "nuovo" rapporto con
la chitarra, che si farà via via più equilibrato: direi quasi più aperto. Come se poco
a poco avessi superato delle diffidenze, anche grazie all'esperienza fatta con la
rivisitazione delle Canzoni popolari di Garcia-Lorca (nella versione per voce e
quartetto di chitarre, recentemente incisa dal Quartetto Torroba) che mi hanno
portato a condividere un aspetto più popolaresco nella trattazione dello strumento. Bolero in rosso è una conseguenza di questa
fase, mentre nel rielaborare per chitarra un'antica melodia del '300 spagnolo (Aria)
- melodia che peraltro ho utilizzato anche per altri strumenti - ho sentito il fascino
"medievale" dello strumento a pizzico. Il che mi ha condotto all'utilizzo
dell'alternativa liuto/chitarra nella rappresentazione sacra La Strada di Levata e
nel Canticum Ezechiae. Sintesi più recente di tutto questo itinerario la Serenata galante che è - per lo meno
come scrittura - il più "tradizionale" dei pezzi che ho dedicato alla chitarra.
Quali sono le sue personali affinità estetiche con la chitarra?
Considerando il "percorso" del mio linguaggio direi che le affinità con il
mondo della chitarra si sono manifestate e rafforzate in ragione di due fattori: il primo
legato a un processo di "riscoperta dell'arcaico" che si riscontra nei miei
lavori a partire dalla prima Symphonia super tenor Aquileiensis del 1979, e che è
tuttora presente; la seconda in quella che definirei una maggior convinzione nel trattare
la musica di matrice popolare o, comunque, di carattere popolare. Un elemento che, se è
stato presente praticamente in tutti gli stadi della mia produzione, Solo negli ultimi
tempi si è fatto più esplicito e più diretto.
Quali sono i problemi di natura strumentale che ha incontrato nello scrivere per
chitarra?
Ogni strumento pone sostanzialmente il problema di rispettare i suoi limiti e, nello
stesso tempo, valorizzare le sue risorse. Quando non si è avuto un rapporto diretto con
lo strumento per cui si scrive, non rimane che ricorrere alla cortesia degli esecutori
(nel caso specifico: dei chitarristi) e, dopo aver steso una prima bozza -
"costruire" il pezzo assieme a loro attraverso una serie di incontri. Queste
sedute - alle quali i chitarristi con cui ho collaborato (e che qui ringrazio) hanno
partecipato sempre con grande disponibilità - consentono al compositore la valutazione
del rapporto difficoltà-resa: sono moltissimi i casi in cui un prezioso suggerimento
consente di trovare una valida alternativa che, senza nulla togliere all'
"idea", semplifica il passaggio moltiplicandone la resa.
Forse oggigiorno l'attenzione dei compositori verso la chitarra è maggiore rispetto
ad una decina d'anni fa, ma c'è ancora, da parte di molti compositori, qualche esitazione
a scrivere per lo strumento.
Da quando il mio linguaggio si è consolidato in una certa direzione, riscoprendo dapprima
i moduli arcaici e quindi estremamente diatonici, e poi riscoprendo il gusto per quei
moduli che hanno - diciamo semplicemente - la possibilità di riconoscersi tonalmente,
sono andato certamente incontro alla chitarra. Coloro che ancora avversano quello
che chiamerei una riconciliazione col passato vivono indubbiamente un rapporto
difficile con uno strumento che ha delle caratteristiche strutturali che a questo passato
sono inscindibilmente legate.
Quali sono le peculiarità dello strumento che, secondo lei, dovrebbero risaltare in
una composizione, che cosa cerca soprattutto di ricavare dalla chitarra?
In primo luogo la resa dinamica. La chitarra è uno strumento che notoriamente soffre di
questo limite: occorre trovare (e avere il coraggio di utilizzare) delle soluzioni che
vadano in direzione positiva, riuscendo ad esaltare il potenziale dello strumento e,
conseguentemente, a dare allo strumentista la soddisfazione di trovare un riscontro al suo
impegno. È inutile la ricerca del nuovo a tutti i costi, primo perché la sperimentazione
fine a se stessa si è ormai esaurita, secondo perché si rischia di andare contro
allo strumento e allo strumentista (e mi pare che non sia un buon proposito).
Che cosa si aspetta da un chitarrista che interpreta le sue composizioni? Che cosa
viene disatteso a volte nelle esecuzioni?
Con l'esperienza si deve arrivare a fornire ad ogni strumentista (e qui il discorso vale
per tutti, chitarristi e non) un testo che deve consentire all'interprete di realizzare
all '85-90% l'"idea" (intesa come progetto sonoro ed emozionale) del
compositore. Quel 10-15% è il margine costituito dalle variabili legate alla
sensibilità dell'interprete stesso, sensibilità che si somma al messaggio emozionale del
compositore: un'esecuzione non potrà mai essere una fotocopia dell'idea dell'autore,
perché ci deve essere un ragionevole spazio per il contributo dell'interprete.
Sottolineo: un contributo, poiché l'interprete - che è colui che trasmette questa idea
all'ascoltatore - scopre e valorizza qualcosa che va sicuramente in questa direzione. E,
comunque, soltanto chi lo ha scritto ha un'idea assoluta del brano: l'ascoltatore
non può soffrire di questo inevitabile margine di scostamento. Certo: si fa riferimento a
strumentisti tecnicamente capaci e professionalmente onesti, che si sforzano di rispettare
tutte le indicazioni del testo. Se, a fronte di queste premesse, il risultato dovesse
rivelarsi eccessivamente diverso dall' "idea" vuol dire che qualcosa non ha
funzionato: o nel messaggio grafico (carente? approssimativo?) o, peggio, nei calcoli
progettuali (formali, strutturali, dinamici, coloristici).
Qual è, Maestro, l'ultima composizione per chitarra che ha scritto?
La Serenata galante del 2000.
E il brano per chitarra da lei composto al quale è più affezionato o che sente che
sia riuscito particolarmente bene? Di solito è l'ultimo in ordine cronologico.
Sì - di solito l'ultimo lavoro è quello che si ritiene sia riuscito meglio, se non altro
perché è quello più vicino ai canoni estetici in cui - in quel momento - si ritiene di
identificarsi. Però un brano al quale sono mo1to affezionato, e che ho avuto modo di
riascoltare spesso nell'esecuzione del Trio Silene (Daniela Brussolo, flauto;
Angela Cavallo, corno inglese; Paola Selva, chitarra) è Aria, avanera e fandango.
Un gran merito va indubbiamente a questo complesso che, avendone fatto uno dei suoi
cavalli di battaglia in tutti i concerti e i concorsi, lo ha assimilato al punto da
renderlo con tale scioltezza e fusione da farmelo rivivere ogni volta con piacere.
L'Aria, il movimento iniziale di questo brano, è stata usata più volte nelle sue
composizioni: come mai questa preferenza?
L'aria che ho utilizzato è un frammento di musica sacra del gotico spagnolo: vi
percepisco il fascino del sacro, dell'antico e dell'arabesco. L'ho utilizzata in un solo
da concerto per tromba e frequenza (scritto per Gabriele Cassone) e, molti anni fa,
nelle Arie rinascimentali spagnole per fagotto e violoncello. Ma ogni volta l'ho
trattata in modo completamente diverso, per cui ognuno di questi brani ha una storia a
sé.
Parte della sua attività artistica è dedicata alla revisione di opere del passato
ed è proprio grazie a Lei che è stato possibile rendere disponibile ai chitarristi
un'importante opera del primo Ottocento, Il Concerto per
chitarra e orchestra di Giovanni Bonfante detto Panizza. Al di là del
valore documentario del Concerto, quale giudizio dà dell'opera?
Mi sono imbattuto, come mi è capitato anche in altre occasioni, in un lavoro scritto
da una mano che conosce molto bene lo strumento a cui il Concerto è dedicato: la
mano di un musicista che ha una scorrevole e fresca vena inventiva (in questo caso di vago
sapore rossiniano) e un felice intuito della struttura generale. Quando poi si scende ai
particolari tecnici riguardanti l'armonia e la strumentazione accade che questi musicisti
- certamente più istintivi che razionali - rivelino delle lacune che, al giorno d'oggi,
rendono di fatto inutilizzabile così come sta l'opera che ci hanno lasciato. È pertanto
compito del revisore il procedere, con umiltà e con rispetto, in questo genere di
ricostruzioni attenendosi rigorosamente ad un proposito: conservare tutto ciò che si può
e rifare tutto ciò che si deve. E, rifacendo, cercare di tradurre in pratica,
possibilmente valorizzandole, tute quelle intenzioni dell'Autore che un'attenta
lettura del manoscritto ci permette di individuare.
Lei è insegnante di Composizione in Conservatorio dal 1973: i suoi allievi hanno
forse scritto qualche cosa per chitarra?
Al di là dei chitarristi, che si sono accostati alla composizione proprio in funzione del
loro strumento, devo dire che negli altri questo feeling non si è realizzato, o
meglio: non si è realizzato durante gli anni di studio. Probabilmente la ragione sta in
questo: l'artista molto giovane tende a preferire i colori più intensi, tende a gridare:
è più affascinato dal mondo delle percussioni, degli ottoni, del coro. Man mano che si
matura si scopre il piacere di sussurrare, si scopre il gusto per la miniatura: la
chitarra classica è uno strumento fatto per l'intimità dei piccoli ambienti, non certo
adatto all'affresco musicale a forti tinte.
C'è un maggior desiderio d'affermazione nei giovani.
Si, c'è - com'è giusto che ci sia - una forte esuberanza, una gran voglia di dare dei
messaggi forti. La chitarra non può soddisfare questo tipo di esigenza, salvo il
violentarla snaturando tutte le sue caratteristiche e calpestando la sua tradizione.
Grazie, Maestro, per la bella chiacchierata.